La prima volta che andai a pesca avrò avuto più o meno sei o sette anni. Mi ci portò il nonno di un mio amico, un uomo dal carattere spigoloso un po’ irascibile dalle mani segnate da cicatrici profonde che solo le reti cariche di pesce possono lasciare.
Appena ci si allontana dalla riva del mare, dalle comitive incolonnate in attesa del prossimo treno, si percepisce come le Cinque Terre siano un territorio che si sviluppa soprattutto in verticale.
Si sale, a fatica, in questa giornata di settembre dall’aria frizzantina e dal sole caldo e implacabile lungo le “creuse” dai gradoni disuguali.
Si “sbuffa”, si ansima, con la maglietta che si appiccica sulla pelle, ma basta voltarsi un attimo, guardando là dove il mare si fonde e si confonde con il cielo, per essere ripagati dallo sforzo.
L’emergenza dell’alluvione qui è passata, presto, ma non poteva essere diversamente per della gente che ha strappato al mare, pietra su pietra, il terreno da coltivare.
L’occhio coglie però i segni dei “cian” abbandonati, dei muretti che hanno “spanciato”, quelli che hanno ceduto. È tuttavia il retaggio di un abbandono lontano nel tempo, quando, malgrado gli sforzi, non c’era resa, non c’era guadagno neppure dalla produzione dello Sciacchetrà.
E mentre sali, con un grappolo d’uva calda tra le mani, rubato da una cesta al sole, osservando i chicchi perfettamente tondi tenendoli delicatamente fra due dita, basta appoggiare una mano su una pietra per percepire che il muretto a secco è una struttura quasi viva, che ha bisogno di cure e attenzioni continue.
Oggi si parla di agricoltura eroica per descrivere questi vigneti dai trasporti complicati, in cui lo sforzo umano è ancora determinante rispetto all’industrializzazione forzata e alle macchine.
Ma non c’è eroismo, c’è passione e amore, per la natura, per la terra.
Settembre alle Cinque Terre è una festa. Silenziosa, in punta di piedi, riservata.
Si fatica, si suda, si trasportano corbe stracolme di uva, ma si condivide, a piccoli gruppi famigliari la gioia della vendemmia.
Gente chiusa, aspra e “mugugnosa” come il mare d’inverno che s’infrange sugli scogli, ma che oggi ti sorride, che ti apre la porta della cantina per mostrarti la meraviglia dell’uva appesa lungo i filari sotto i solai dei tetti, stesa nei “graticci”, ad asciugare, ad ambrarsi trasformandosi lentamente per diventare l’uva del pregiato sciacchetrà.
E può succederti di tutto: di ritrovarti a scendere sui carrelli dei trenini a “cremagliera”, al posto delle ceste d’uva, in equilibri precari, invitato a pranzi di nozze, a grigliate inattese.
Serendipità si dice, un neologismo che sembra più uno scioglilingua, un modo per indicare la sensazione che si prova quando si scopra una cosa non cercata e improvvisa mentre se ne sta cercando un’altra. È la felicità inattesa, come il settembre alle Cinque Terre, dove si vive un elogio a Bacco, alla natura, alla lentezza, alla gioia di stare insieme.
Le Cinque Terre di settembre non vanno descritte o fermate nel tempo da un’istantanea rubata, vanno vissute.